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Parlare di emozioni ai figli per crescerli meglio: la Genitorialità Riflessiva

Parlare ai figli di emozioni per crescerli meglio: l’obiettivo di questo articolo è proprio quello di sottolineare l’importanza di questo atto pedagogico da parte dei genitori verso i propri figli.

Perché è importante parlare di emozioni in modo esplicito, aperto e condiviso con i propri figli?

Secondo lo psicologo Peter Fonagy, uno dei compiti educativi più importanti dei genitori è quello di stimolare lo sviluppo della capacità di mentalizzazione.

Cos’è la mentalizzazione?

Si intende per mentalizzazione la capacità prettamente umana di interpretare i comportamenti degli altri prendendo in considerazione il loro punto di vista e di comprendere l’impatto che i propri comportamenti hanno sugli altri.

In sintesi la mentalizzazione è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, assumere la sua prospettiva sul mondo e comprendere l’effetto delle proprie azioni sulla sua vita.

Si tratta di una capacità sociale fondamentale perché è legata indissolubilmente al proprio benessere relazionale.

Sapersi destreggiare all’interno delle relazioni sociali con gli altri è un’abilità enormemente utile, che nella vita adulta può avere effetti sostanziali sul proprio successo personale e lavorativo.

Tuttavia lo sviluppo della mentalizzazione comincia sin dai primi anni di età: Fonagy si è occupato enormemente dello studio dello sviluppo dei bambini ed ha sottolineato come tale abilità possa essere accresciuta già dai tre anni.

Aiutare i propri figli a sviluppare la capacità di immedesimarsi nel vissuto dell’altro è un investimento sul loro futuro, poiché significa equipaggiarli con un’abilità che potrà essergli molto utile da adulti.

Quindi perché parlare di emozioni ai figli?

La conoscenza delle emozioni di base, assieme all’insegnamento di un’espressione coerente delle medesime a seconda della situazione sociale in cui ci si trova, è un tassello fondamentale dello sviluppo della mentalizzazione.

D’altronde è logico aspettarsi che se un bambino deve imparare a mettersi nei panni dell’altro e cogliere le reazioni dell’altro in risposta ai suoi comportamenti, deve in qualche modo conoscere ed esperire le quattro emozioni di base (paura, rabbia, tristezza, gioia) per poterlo fare.

Le emozioni sono indissolubilmente legate alla vita relazionale dell’essere umano: ogni emozione è connessa ad uno stimolo che le elicita, che molto spesso è di natura sociale proprio in virtù del fatto che viviamo circondati da altre persone.

Il rapporto personale che ognuno di noi sviluppa con le emozioni è fortemente influenzato dalle esperienze che abbiamo vissuto da piccoli.

Genitori “riflessivi”, ovvero che stimolano il bambino a considerare il suo vissuto e quello degli altri dandogli un nome, accrescono la capacità del bambino di mentalizzare e quindi di capire come si sente lui stesso o un altro.

Accettare il vissuto emotivo dei figli, aiutarli a gestirlo, parlarne apertamente in modo non giudicante sono tutti passi educativi essenziali che plasmano positivamente l’abilità del bambino di avere un rapporto salutare con le proprie emozioni.

Spesso e volentieri interventi educativi di questo tipo aiutano i bambini ed i ragazzi con difficoltà comportamentali a ragionare sull’impatto che i loro comportamenti hanno sugli altri, diminuendo col tempo la frequenza e l’intensità dei comportamenti problema stessi.

In ultima analisi è possibile affermare che parlare di emozioni coi figli è un atto educativo che abbraccia la salute psicologica e relazionale del bambino a 360°, che pone le basi per lo sviluppo di un adulto più sano e felice.

[Fonte utilizzata per questo articolo, per chi volesse approfondire l’argomento: Il Trattamento basato sulla mentalizzazione per i bambini, di N. Midgley e colleghi, Raffaello Cortina Editore]

Grazie per la lettura.

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Dottor Antonello Mattia – Psicologo Castelli Romani

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E tu sei davvero capace di ricevere un complimento da parte di qualcuno?

A volte le cose apparentemente più semplici sono quelle più difficili: ricevere un complimento da parte di qualcuno può nascondere una difficoltà “celata” che potrebbe essere connessa alla propria storia personale passata.

Come reagisci quando qualcuno ti fa un complimento?

Lo accetti, ringrazi e poi sorridi?

Ti imbarazzi?

Sorvoli su ciò che ti è stato detto e poi passi ad altro?

Sembra una piccola cosa ininfluente, ma la nostra capacità di ricevere un complimento da parte di qualcuno parla di noi e della nostra storia personale, molto più di quello che potremmo pensare.

Cos’è un complimento?

Secondo l’Analisi Transazionale, un complimento è una carezza positiva ricevuta dall’altro.

La carezza, così denominata, non è letteralmente una carezza sul viso, ma è intesa come l’unità di riconoscimento umano, ovvero si definisce carezza qualsiasi tipo di azione che implica, per l’appunto, il riconoscimento da parte dell’altro (e verso l’altro).

L’essere umano, in quanto animale sociale, ha bisogno di riconoscimento, di essere rispecchiato, di interagire con l’altro.

Questo bisogno è fondamentale tanto quanto il bisogno di mangiare e di bere.

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Cosa può fare un genitore per supportare il figlio che inizia un percorso di psicoterapia?

Cosa può fare un genitore per supportare il figlio che inizia un percorso di psicoterapia? Spesso il cambiamento dei genitori si riflette sui figli: vediamolo assieme.

Questo articolo è indirizzato a tutti quei genitori i cui figli, per i motivi più disparati ma comunque legati alla sperimentazione di una situazione di disagio psicologico, decidono di intraprendere un percorso di psicoterapia.

Questo genere di situazioni possono essere nuove e quindi sconosciute, d’altronde ancora tante persone non sanno chi è lo psicologo e che cosa fa (ho scritto alcuni articoli a riguardo, ad esempio questo e quest’altro).

Per affrontare al meglio un’esperienza nuova di questo tipo, cosa può fare un genitore per supportare il figlio che inizia un percorso di psicoterapia?

La prima informazione da avere è che ogni famiglia è un sistema.

Molti genitori non sanno (giustamente, non sono degli “addetti ai lavori” come noi psicologi) che la famiglia è un sistema in cui tutti i membri si influenzano a vicenda.

Se provate a cercare la parola “sistema” su Google, le varie definizioni rimanderanno sempre a questo punto: si tratta di un insieme costituito da più parti che si influenzano a vicenda.

Ciò significa che il modo di pensare, sentire ed agire dei genitori influenza il modo di pensare, sentire e di agire dei figli, ma questo procedimento è valido anche al contrario.

Ogni membro della famiglia contribuisce a modo suo a mantenere l’equilibrio familiare, ovvero a mantenere “le cose come stanno”, soprattutto a livello relazionale.

Spesso questo contributo è al di fuori della propria consapevolezza personale.

È difficile avere coscienza di come si influenzano gli altri membri del gruppo familiare, senza avere una “terza persona” esterna che ci aiuta a cogliere con obiettività i nostri modi di fare nei confronti degli altri.

Spesso questa terza persona è uno psicoterapeuta, se si vogliono fare le cose fatte bene, ma su questo punto ci torneremo più avanti.

Dopo aver specificato questa importante premessa, torniamo alla domanda iniziale: cosa può fare un genitore per supportare il figlio che inizia un percorso di psicoterapia?

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