Una riflessione personale su cosa può significare “essere psicologo” e “fare lo psicologo”, analizzando le possibili differenze.
Questo articolo non sarà una dissertazione sulla lingua italiana, giuro.
Anzi, credo che parlare del fatto che possa esserci una differenza tra queste due espressioni così simili, “essere psicologo” e “fare lo psicologo”, sia assolutamente inerente alla Psicologia ed al modo con cui i professionisti psicologi si approcciano al lavoro.
In realtà, l’idea di scrivere questo articolo mi ronzava in testa già da un pò.
Entrare nel mondo del lavoro della Psicologia ti porta a fare due riflessioni importanti, molto presto.
La prima è che gli psicologi sono davvero tanti, in Italia e soprattutto nel Lazio.
La seconda è che è possibile osservare una varianza davvero importante nel modo di lavorare coi pazienti, da parte dei colleghi.
Rispetto a questo non voglio soffermarmi se ciò è giusto oppure sbagliato: non ho i dati alla mano per poter dire che un approccio sia migliore di un altro, inoltre non voglio occupare la posizione di giudice di fronte ad un imputato immaginario.
Al contrario, quella di oggi è una riflessione personale, parlata ad alta voce (anzi, scritta), che si basa sulla mia esperienza e su ciò che ho osservato nel tempo.
“It’s a long way to the top”, cantavano gli AC/DC …
Il mestiere dello psicologo è abbastanza peculiare.
Si tratta di una professione sanitaria che, al pari di altre figure sanitarie come i medici, richiede un percorso di formazione molto lungo che spesso ammonta intorno ai 10 anni (come minimo).
Ad oggi, per diventare psicologo bisogna:
- Fare 5 anni di università, laureandosi in Psicologia;
- Fare 1 anno di tirocinio e superare l’Esame di Stato;
E fino a qui si tratta di 6 anni, non 10.
Tuttavia!
Più volte mi è capitato di chiacchierare con dei colleghi, sia dal vivo che online, e constatare che la formazione universitaria in Psicologia non è che sia poi delle migliori.
O meglio, provo ad essere più specifico: quella che manca, spesso, è la formazione di tipo pratico.
In generale le università italiane (o perlomeno quelle del Lazio di cui sono a conoscenza) prediligono una formazione fatta più “sui libri” che stando a contatto con le persone, lavorando uno ad uno con loro.
Durante i 5 anni di università i tirocini scarseggiano, ed anzi, personalmente posso anche “vantarmi” di aver frequentato un’università che negli ultimi anni di formazione proponeva dei corsi esperienziali molto interessanti.
Qual è il risultato di questo processo formativo?
Il risultato è che si è ufficialmente psicologi dopo 6 anni, ma se si vuole cominciare a “fare clinica” sin da subito ci si rende spesso conto che non si ha l’esperienza pratica per poterlo fare con sicurezza di sé e dei propri mezzi.
Molte volte è per questo motivo che gli psicologi decidono di fare la scuola di psicoterapia: sentono che c’è qualcosa che manca, per cui iniziano un nuovo percorso di studi.
(Spesso ci sono anche altre motivazioni di tipo burocratico, come il fatto che per accedere a molti posti pubblici tramite concorso è richiesto il diploma da psicoterapeuta, ma sorvoliamo).
Riprendiamo l’elenco precedente e aggiungiamo:
- Fare 4 anni di scuola di psicoterapia.
A questo punto non si è solo psicologi, ma anche psicoterapeuti, e dopo 10 anni dall’aver messo piede nella facoltà di Psicologia si spera di saper fare il mestiere.
Essere o non essere … psicologo? È questo il problema (cit.)
Adesso arriviamo al nocciolo della questione: esiste una differenza tra l’essere psicologo ed il fare lo psicologo?
Per rispondere a questa domanda è necessario aggiungere un ultimo pezzettino alla riflessione.
Spesso si sente dire che lo psicologo è “lo strumento di sé stesso”.
Cosa significa?
Per gli addetti ai lavori può essere un pò più facile da capire, mentre già immagino l’espressione confusa di chi sta leggendo questo articolo e non ha mai aperto un libro di Psicologia in vita sua (tranquilli, è normale).
Così come il medico usa la sua strumentazione fatta di stetoscopio, termometro e via dicendo, anche lo psicologo può contare su una sua strumentazione.
La strumentazione dello psicologo è … sé stesso (ed i test).
Fare lo psicologo significa costruire assieme alla persona che viene a studio una relazione interpersonale.
Questa relazione è peculiare e non è come le altre: non è ovviamente una relazione di amicizia, e non è una relazione professionale fredda e distaccata come può esserci tra due colleghi di lavoro.
La relazione cosiddetta “terapeutica” risponde a determinate caratteristiche, ed è importante che lo psicologo le conosca e soprattutto che sappia porre le basi per poterla costruire.
Uno degli aspetti più importanti che caratterizzano la base della relazione terapeutica è il fatto che lo psicologo deve essere “presente” nella relazione.
È abbastanza facile cogliere quando una persona “fa finta” di ascoltare ciò che stiamo dicendo: chiunque è capace di farlo, anche un bambino.
In questo tipo di situazioni, che immagino saranno capitate a tutti almeno una volta nella vita, la persona che ci ascolta è lì fisicamente, ma non è davvero lì col cuore e con la mente.
Questo che sto descrivendo è uno dei casi più estremi, ma può capitare di “sentire” emotivamente che l’altro non sta sentendo con noi, che non partecipa al contenuto emotivo di ciò che stiamo dicendo.
Magari ci risponde e lo fa con pertinenza, ma a volte è possibile intuire quel distacco esistente tra mente e cuore (o dovrei dire pancia, dato che è il nostro centro emotivo).
Uso la parola “intuizione” perché spesso si tratta di una percezione sottile che ha molto a che fare con la comunicazione non verbale e con l’inconscio, ma esiste e tutti noi siamo capaci di coglierla.
Questo stesso processo può accadere all’interno dello studio dello psicologo, da parte dello psicologo stesso.
La persona che è deputata all’ascolto ed alla partecipazione emotiva non è sempre ben equipaggiata per svolgere questa sua funzione, e le motivazioni possono essere tante.
Esistono psicologi che sono molto bravi a livello tecnico, ma che sono carenti dal punto di vista umano.
Perché accade una cosa del genere?
Credo che non esista una risposta univoca e sicuramente non possiedo la verità in tasca.
Quella che segue è la mia visione delle cose.
Essere psicologo o fare lo psicologo: una differenza di strumentazione
Più che una differenza di strumentazione, secondo me si tratta di una differenza di affinatura.
Lo psicologo utilizza sé stesso all’interno del setting terapeutico.
“Di relazioni ci si ammala, di relazioni si guarisce”, è una frase comunissima nelle scuole di psicoterapia, ed è alquanto vera.
Ciò significa che lo psicologo ha come obiettivo (o meglio, è almeno uno degli obiettivi possibili) quello di creare una relazione che sia antitetica rispetto a quella disastrosa che ha vissuto il paziente con le persone per lui/lei importanti.
Per raggiungere un obiettivo di questo tipo è necessario esserci all’interno della relazione.
Lo strumento, in questo caso, deve essere lindo e pinto, ben calibrato.
Uno strumento affinato è quello che permette allo specialista di capire fin dove spingersi; dove andare a sondare; se deve avere un tocco dolce e delicato oppure deve essere incisivo; e così via.
Si tratta di un processo molto delicato che richiede, a mio parere, tre cose:
- Una solida base teorica a cui fare affidamento, per evitare di operare a caso;
- Tanta esperienza derivante dallo stare in relazione con tipi diversi di pazienti;
- Tanta psicoterapia personale.
Per rispondere alla domanda iniziale dell’articolo: esiste una differenza tra l’essere psicologo e fare lo psicologo?
Secondo me sì e questa differenza è data principalmente dai tre fattori appena descritti.
Teoria, esperienza pratica e psicoterapia personale.
La prima è quella che di solito non manca mai nella formazione degli psicologi; la seconda si acquisisce col tempo; la terza purtroppo a volte è carente, se non assente.
A mio parere, l’aspetto della psicoterapia personale rappresenta un punto fondamentale della differenza esistente tra l’essere psicologo e fare lo psicologo.
Lo psicologo si pone in una posizione di cura rispetto al paziente.
Uno psicologo che ha fatto un robusto percorso di psicoterapia personale assumerà questa posizione in modo naturale, genuino e veritiero.
Non avrà problemi ad entrare in intimità con l’altro, a prendersene cura quando lo reputa necessario, a partecipare alla sua condivisione emotiva.
Così come non avrà problemi a stare in contatto con sé e con le sue emozioni, che sono una fonte preziosa di informazioni durante il processo di aiuto.
Non avrà problemi a fare tutto ciò perché avrà fatto un lavoro diretto su queste capacità, che adesso fanno parte di lui/lei: è il suo modo di lavorare, ma anche il suo modo di stare con sé e con gli altri nel quotidiano.
La differenza esistente tra fare lo psicologo ed essere psicologo, per me, è proprio questa.
È la sinergia che si ottiene tra il sapere, il saper fare ed il saper essere.
Per forza di cose è molto differente dal semplice applicare la tecnica descritta nel manuale.
Ed i pazienti, intuitivamente, si accorgono della differenza.
Se ti è piaciuto l’articolo, ti invito a condividerlo. Grazie per la lettura.
Dottor Antonello Mattia – Psicologo Castelli Romani